La Chimica Organica
illustrazione tratta da Le Galeniche di Toraude, 1919.
Didascalia: "agglutinarci con la sua glicerina!".
La Chimica Organica
illustrazione tratta da Le Galeniche di Toraude, 1919.
Didascalia: "agglutinarci con la sua glicerina!".
Illustrazione umoristica tratta dalla celebre opera di Toraud, farmacista scrittore, Les Galéniennes [Le Galeniche], del 1919.
Nato da una famiglia protestante di Rouen, Lémery studiò presso il collegio protestante di Quevilly per diventare nel 1660 apprendista presso uno zio apotecario. Studiò successivamente chimica presso Christophe Glaser, apotecario di Luigi XIV e che si occupava anche del celebre Jardin Du Roi, l’Orto botanico parigino.
Dal 1668 al 1672 è pensionante di Henry Verchant, mastro apotecario a Montpelier di cui diventa dimostratore e dà delle lezioni di chimica agli studenti di medicina ed anche ai loro professori. Di ritorno a Parigi nel 1672 riacquista il 18 settembre 1674 la carica di apotecario privilegiato di Antoine Régnier che era deceduto. Apre allora un'officina ed un laboratorio nella cantina di una casa all'insegna di La Porta doratasituata in rue Galande vicino a piazza Maubert dove dà dei corsi ad un pubblico numeroso e scelto avido di vedere infine rivelati i segreti della chimica. Secondo Fontenelle "Le Signore stesse coinvolte dalla moda, avevano l'audacia di venire a mostrarsi a delle assemblee così erudite". Si sposa in gennaio 1676 con Madeleine Bellanger, figlia di François Bellanger, borghese di Parigi, da cui ebbe sei figli.
Nel 1681 i protestanti cominciarono ad essere minacciati e sotto la pressione reale che voleva espellere i protestanti dalla professione di apotecari, dovette vendere il suo negozio di rue Galande che egli cedette il 6 febbraio 1683 a Jean Fradin, mastro apotecario a l'Hôtel Dieu di Parigi, poi dimissionò dalla sua carica di apotecario i 23 aprile 1683 a profitto di Denis Machauraux. Dopo un breve soggiorno in Inghilterra, ritorna in Francia. Lo ritroviamo verso la fine del 1683 all'UNiversità di Caen dove è ricevuto come dottore in medicina. Di ritorno a Parigi vive esercitando la medicina, ma in seguito alla revoca dell'Editto di Nates, il 18 ottobre 1685, che proibiva ai protestanti l'esercizio della medicina e della farmacia, decide all'inizio del 1686 di abiurare la sua fede insieme a sua moglie ed i suoi figli. L'8 aprile 1686, Luigi XIV che aveva stima di lui in merito al suo talento, gli accordò nuove lettere patenti che gli permisero di aprire alla fine dell'anno una nuova bottega di apotecario ed un laboratorio di chimica in rue Saint-Jacques vicino alla fontana Saint-Séverin.
Dopo il rinnovamento dell'Accademia reale delle scienze da parte di Luigi XIV, il 20 gennaio 1699, è nominato associato chimico, il 28 gennaio dello stesso anno, poi pensionario chimico il 23 novembre 1699 all amorte di Claude Bourdelin. Nel 1712, è nominato direttore, ma gravemente malato, è costretto di dare le dimissioni il 6 marzo 1715. Ricevette allora il titolo di pensionante veterano. Muore il 19 giugno 1715 nella sua casa di rue Saint-André des Arts che occupava dal mese di dicembre 1693 e dove aveva installato bottega e laboratorio.
Lémery non si preoccupava molto di speculazioni teoriche. Considerava la chimica una scienza dimostrativa e si limitava ad esporre senza deviazioni i fatti e le esperienze. Di conseguenza, la sua sala dei corsi era piena di persone di ogni genere, avide di ascoltare un uomo che evitava le sterili oscurità degli alchimisti e non considerava la ricerca della pietra filosofale o l'elisir di lunga vita come unico fine della scienza.
Il suo Cours de chymie(1675) conobbe ben 13 edizioni e costituì una forte autorità per un secolo. Si conta, tra le sue altre pubblicazioni, la Pharmacopée Universelle (1697), Il Traité universel des drogues simples (1698), il Traité de l’antimoine (1707), così come un certo numero di articoli pubblicati dall'Académie des sciences, di cui uno offre una spiegazione chimica e fisica dei fuochi sotterranei, dei terremoti, della folgore e del tuono.
Oltre alle sue ricerche in chimica ed in medicina, gli si deve soprattutto la scoperta del ferro nel sangue. Egli scoprì che un miscuglio di zolfo e di ferro a cui si aggiunge un po' d'acqua per formarne un impasto, si infiamma spontaneamente riproducendo, secondo lui, il fenomeno vulcanico.
Il maggiore dei suoi figli, Louis (1677-1743), fu medico, chimico e membro dell'Academie des Sciences (eletto il 26 luglio 1702 come chimico poi nominato pensionante il 18 marzo 1715 in sostituzione di suo padre). Il minore dei suoi figli, Jean, chiamato Jacques dai suoi biografi, (1678-1721), chimico anch'egli, fu eletto all'Academie des Sciences il 22 agosto 1712 e nominato associato il 5 giugno 1715.
Un incubo di Mimi
Litografia pubblicata in Le Charivari, del 28 gennaio 1850.
Véron dorme vegliato con disprezzo dal suo doppio con una cravatta gigantesca ed un berretto da notte seduto sulla sua pancia, deriso dal Charivari che dirige le danze suonando un banjo. La siringa per clisteri è trasformata in un personaggio minaccioso e la scatola della pasta di Regnauld in un grande ragno al centro della sua tela.
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La pratica dell’erborizzazione
La pratica dell’erborizzazione ha dovuto essere una costante delle attività di tutti coloro che si interessavano professionalmente alle piante dalla più remota antichità. La ricerca della radice che nutre o delle foglie che curano suppone che si vada nella natura a cercare le piante.
La pratica dell’erborizzazione deriva, a partire dal Rinascimento, da una logica un po’ diversa. Si tratta meno di partire alla ricerca di erbe già note a fini puramente utilitari che di osservare la realtà di un tappeto vegetale in un determinata regione. Lo scopo, qui, partecipa della descrizione del reale, della necessità di inventariare e parte dalla cosa per approdare alle parole.
Nella prima metà del XVI secolo, questo sguardo abbastanza nuovo sulle piante è accompagnato dalla messa a punto, in Italia, della procedura di disseccamento delle piante che permette la costruzione di erbari secchi. Si considera generalmente che il processo è stato codificato da Ghini, botanico toscano nato negli ultimi anni del XV secolo. La maggior parte dei naturalisti importanti della seconda metà del XVI secolo sono suoi allievi: da Aldrovandi a Cesalpino, da Matthioli ad Anguillara.
I più antichi erbari che si conservano oggi datano di quest’epoca: segnaliamo quelli di Jean Girault conservato al Museo di Storia naturale di Parigi; quello di Cesalpino conservato all’Orto Botanico di Firenze; quello di Aldrovandi conservato all’Erbario dell’università di Bologna. Sul lato delle spedizioni botaniche, le testimonianze non mancano per provare l’importanza che riveste nello spirito dei ricercatori del Rinascimento, lo sguardo diretto posto sulle piante. I racconti di viaggiatori, nell’antico come nel nuovo mondo sono pieni di osservazioni sulle piante.
Anche in Europa, è facile mostrare quanto si sviluppanole spedizioni esplorative degli ambienti naturali. È Gesner, che scrive nella prefazione da lui scritta al lexicon di David Kyber che la nomenclatura bilingue così costituita permetterà agli studenti di orientarsi nella natura; Giovanni Pona, Francesco Calzolari e Ulisse Aldrovandi organizzano una spedizione nella regione di Monte Baldo, vicino a Verona da cui redigono tre resoconti; Matthias de l’Obel e Pierre Pena esplorano la Provenza, mentre il botanico di Arras, Charles de L’Ecluse, descrive le piante dell’intera Europa dall’Ungheria alla Spagna. Gli esempi di queste spedizioni botaniche sono, come si vede, numerose.
Durante il XVII secolo, le spedizioni botaniche sono diventate correnti. Le biografie di Boccone mettono l’accento sulla costante preoccupazione del naturalista di cercare sistematicamente delle piante che non sono state ancora descritte o altre per le quali esistono ancora delle controversie per quanto concerne la loro identificazione.
Il Quaderno di Chantilly
Descrizione del documento
La prima parte del manoscritto 2039 è un quaderno di piccolo formato che porta, di mano che potrebbe essere quella di paolo Boccone stesso, il resoconto di una arborizzazione condotta nei giardini del castelloo di Chantilly nel 1671. La carta utilizzata reca delle filigrane che ritroviamo anche nell’erbario: bisogna concludere da questo fatto si ache Paolo Boccone conservava una riserva di fogli di carta, probabilmente di origine italiana, nel 1671, sia che i tentativi di impressione delle piante a partire da esemplari essiccati si è estesa nel tempo tra 1665, data più alta confermata dall’utilizzazione delle lettere e 1671, data bassa offerta dal quaderno. La conservazione dei due documenti nello stesso insieme non permette di scegliere tra le due ipotesi.
Se l’erbario presenta un doppio interesse per la storia delle tecniche e per quella della scienza, il quaderno di Chantilly deve essere interpretato alla luce delle informazioni concernenti la storia della botanica nel XVII secolo. Il testo si presenta come una serie di nomi di vegetali, forniti in nomenclature spesso più antiche di quelle usate nell’epoca in cui lavora il botanico siciliano.
Il riferimento più antico rinvia all’opera pubblicata da Bock (Tragus in latin) nel 1552; le altre riguardano opere per la maggior parte composte da naturalisti della metà della generazione precedente traq i quali figurano dei nomi molto famosi come Charels de L’Escluse, Mathias de L’Obel, Leonard Fuchs o Pietro Andrea Matthioli.
Il riferimento all’erbario di C, Bauhin era prevedibile: il Pinaxdel botanico svizzero è in effetti uno dei testi fondamentali sulle piante. Si presenta come una nomenclatura che offre al lettore ed al ricercatore delle equivalenze esatte con i nomi di piante utilizzate dai botanici del Rinascimento. Il Pinax non costituisce un erbario nel senso stretto del termine: non offre né descrizione, né immagine delle piante considerate. Deve essere letto, in compenso, come uno dei più grandi sforzi consentiti al Rinasciemnto per uniformare e mettere in ordine il campo della fitonimia.
L’utilizzazione della Historia Plantarumdi Jean Bauhin, pubblicata nel 1650 da suo genero Cherler, non presenta più aspetti particolarmente stupefacenti. Benché si tratti di un’opera ampiamente dipendente dallo stato della riflessione botanica degli annni 1580, non era stato pubblicato che recentemente al momento in cui Boccone raccoglie le sue piante.
Il ricorso al commento di Matthioli su Dioscorideproviene da una logicamolto diversa. Questo commento, la cui prima edizione italiana era stata pubblicata nel 1544, ha beneficiato per tutto il XVI secolo di molte edizioni e di traduzioni. Il contenuto del commento è costantemente arricchito durante le diverse edizioni: testimonianza di una riflessione scientifica in movimento che si nutre nel contempo della meditazione sulle fonti antiche e di elaborazione.
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La mandragora
Radice maledetta che cura ed uccide
La mandragora, è una pianta appartenente al genere delle solanacee, piante erbacee originarie delle regioni temperate calde del mondo antico ricche in alcaloidi che conferiscono loro delle proprietà allucinogene e le rendono perciò tossiche. La più conosciuta è la Mandragora officinarum, originaria del bacino del Mediterraneo.
“Herba lucia mandragola, illustrazione da un manoscritto conservato alla Biblioteca Ludovico Jacobilli di Foligno, tratta da: Cristina Casciola, Da speziali a farmacisti : la pratica farmaceutica a Foligno dal 14° al 20°. Secolo, AFAM, Foligno, 2003.
Mandragora dal Dioscoride napoletano, (fine VI secolo d.C.).
Le testimonianze sull’uso medicamentoso della mandragora riguardano soprattutto le sue capacità di causare un sonno profondo e ristoratore, sia che la sua radice venga posta nella camera dove il paziente dorme, sia che venga mescolata al cibo oppure cotta nel vino. Un’altra sua caratteristica è quella di fungere da afrodisiaco o da amuleto portafortuna nelle vicende amorose.
In epoca romana si credeva che la mandragora fosse sede di un demone e che quindi svellendola dal terreno, il demone si sarebbe risvegliato e con il suo urlo ucciso chi l’avesse raccolta. Si usava perciò tracciare tre cerchi con un ramo di salice attorno alla pianta, legarla con un filo nero e allacciarlo al collo di un cane, in modo che il maleficio colpisse l’animale.
Mandragora femmina, xilografia colorizzata tratta da un erbario tedesco.
La Mandragora, radice ospitante un demone che può proteggere o uccidere. Miniatura da un Herbarius della fine del XV secolo
Nel Medioevo venivano attribuite alla mandragora qualità magiche e perciò era usata nella preparazione di molte pozioni. Molti testi di alchimia la raffigurano con le forme di un uomo o di un bambino. Era considerata una creatura a metà strada tra il regno vegetale ed animale.
Altra rappresentazione di mandragola femmina e mandragola maschio tratta da un antico codice medievale: l’erbario detto pseudo Apuleio, Inghilterra, abbazia di sant’Agostino, Canterbury, XI secolo (1070-1100 circa).
I caldei, due millenni prima della nostra era, si servivano della mandragora per provocare l’estasi degli addetti durante le cerimonie di iniziazione. Pindaro, Socrate, Xenofonte e Platone hanno fatto allusione alla sua virtù soporifera. Ippocrate ne ha lodato le proprietà antitetaniche, l’efficacia contro la febbre quartana e le emorroidi. Teofrasto raccomandava di prendere delle precauzioni a coloro che dovevano raccogliere questa pianta: non avere il vento in faccia, tracciare tre cerchi intorno alla pianta con la spada e strapparla infine rivolgendo la faccia verso ponente, tutto ciò mentre un’altra persona nelle vicinanze danzi e canti delle canzoni oscene.
Miniatura della mandragora tratta dal codice Medicina Antiqua del XIII secolo.
Anche presso i romani la mandragora ebbe molta considerazione. Cornelio Celso nel suo De Arte Medica, consiglia a coloro che hanno problemi di sonno, di riporre sotto il cuscino qualche bacca di mandragora. Secondo Galeno la scorza delle radici, associata alla mirra, la senna, il cedro, il pepe, lo zafferano ed i semi di giusquiamo calma i dolori di ogni parte del corpo.
Mandragora illustrazione tratta dall’Herbarium de Trento del XV secolo
Durante il Medioevo, la mandragora continuò ad essere usata ampiamente come medicamento. Ebbe però anche un formidabile successo tra teurghi, maghi ed alchimisti che attraverso di essa cercavano di scoprire le sue virtù soprannaturali attraverso cui scoprire i segreti della natura per creare la vita partendo dall’inanimato.
La mandragora maschio a sinistra e femmina a destra da una tavola di Pierre Pomet tratta dalla sua opera Storia generale delle droghe.
La mandragora persistette nella farmacopea occidentale sino al XVI secolo per subire poi un declino verso la fine di questo secolo e soprattutto a partire dal XVIII. Nel suo celebre Trattato Universale delle droghe semplici, del 1738 Nicolas Lémery la raccomandava ancora da utilizzarsi con un olio allo scopo di far diminuire le infiammazioni e come antidolorifico.
La pianta della mandragora tratta dal Tacuinum Sanitatis, codice del 1390 circa.
Dato il suo grande rilievo nel folclore, la mandragora ispirò numerosi artisti, poeti, autori teatrali e scrittori, in Italia il Machiavelli ne trasse il soggetto per una sua commedia che, nei tempi moderni, è stata portata spesso sugli schermi cinematografici.
La più famosa mandragola letteraria del nostro paese è l’esilarante commedia scritta da Machiavelli nel 1514.
Mandragora maschio e mandragora femmina, xilografia dal Hortus sanitatis
Dati tratti dal saggio di Louis TERCINET: Mandragore, racine hantée... qui protège et qui tue, 1948.
È certamente in vista di un’utilizzazione medica che gli strumenti di pesatura sono stati inventati. Sin da epoche remote ci si accorse certamente delle virtù curative di alcune piante somministrate ad una certa dose, della loro nocività ad un’altra: da cui la necessità di pesare.
Grande supporto in legno a forma di due serpenti intrecciati e coronati, con montanti in ferro battuto e sette bilance di diverse dimensioni. Fine del XVIII secolo, inizi del XIX, Austria.
Questa spiegazione farmaceutica della nascita della bilancia trova la sua conferma in uno dei più antichi trattati metrologici che ci siano giunti, il Carmen de ponderibus. L’autore di questa poesia, anonimo del III o IV secolo, precisa che i pesi sono quegli oggetti “di cui parlano i vecchi trattati di medicina”: nessuna allusione all’oreficeria o al commercio.
Ora se i faraoni ci hanno consegnato nei loro monumenti funerari o sui loro papiri numerose rappresentazioni di bilance, è perché quest’ultime avevano acquisito un posto importante nelle loro credenze religiose, i loro dei infatti, le avevano adottate per pesare il giusto e l’ingiusto, prendendo in prestito questa volta il loro strumento dalle farmacie del tempo.
Pesatura delle anime nell’Egitto faraonico
Primo Libro delle Respirazioni di Ousirour, (150-200 a. C.), epoca tolemaica.
Le tre righe in alto sono un inno ad Osiris, di cui alcune frasi sono tratte dal Libro del percorso dell’eternità. Sotto, il Primo Libro delle Respirazioni. Ousirour, indossante la corona di giustificazione, incensa una vacca in piedi su una tomba: è la dea Hathor, che protegge la sua spoglia (Libro dei Morti, capitolo 162). Il dio Toth, con la testa di ibis, controlla la pesata dell’Anima di Ousirour, in presenza di Osiride ed Iside. Davanti alla bilancia, la “divoratrice” deve ingoiare le anime troppo pesanti (Libro dei Morti, capitolo 125).
Il frammento di un manoscritto egiziano rappresenta la “grande sala della Verità”, in cui il defunto sta per essere giudicato da Osiride, assistito dai suoi 42 aiutanti dalla testa animale o di uomini e dalla bestia dalle fauci spalancate “che distrugge i nemici divorandoli”.
Horus e Anubi, pesando il cuore annunciano “che fa equilibrio alla verità e che la bilancia è soddisfatta”. Thot registra questa sentenza ed ordina che il cuore sia rimesso al suo posto nel petto: è il segnale della resurrezione.
La bilancia, quaranta secoli fa era così costituita: su uno zoccolo, un piede verticale reggeva un’asta forata ad ogni estremità da un buco in cui erano annodati gli attacchi che reggevano un piatto. Ma l’ago, solidale con l’asta, invece di spostarsi davanti ad un quadrante graduato, oscillava accanto ad un filo a piombo, a cui doveva essere parallelo. Ricche sculture ornavano l’asta ed il piede: fiori e steli di papiro, teste di re o di animali sacri.
Qualche secolo dopo, nella Grecia omerica abbiamo una testimonianza dell’uso della bilancia nell’VIII canto dell’Iliade: Greci e Troiani combattevano senza risultato, quando a mezzogiorno,
Ma quando ascese a mezzo cielo il sole,
alto spiegò l'onnipossente Iddio
l'auree bilance, e due diversi fati
di sonnifera morte entro vi pose,
il troiano e l'acheo. Le prese in mezzo,
le librò, sollevolle, e degli Achivi
il fato dechinò, che traboccando
percosse in terra, e balzò l'altro al cielo.
Su uno dei numerosi vasi greci in cui furono disegnate delle bilance. Mercurio (Hermes) procede alla pesatura delle anime alate di Achille e di Memnone. Il piatto che reca la prima sale, l’altra scende: Memnone sarà ucciso da Achille. Così la “psicostasi” greca non è un giudizio morale dell’oltre tomba come quella egiziana, ma un’operazione che fissa alla felicità il destino dei vivi.
La coppa di Arcesilao. Pesatura del Silfio (Ferula Narthex), Coppa greca del VI secolo a. C.). Il re Arcesilao sorveglia la pesatura e l’imballaggio di questa pianta.
Nella coppa di Arcesilao, altro vaso greco, la bilancia non è più al servizio della superstizione, ma della farmacia: vi si pesa il Silfio, pianta medicinale che cresceva in Cirenaica. Vediamo che la bilancia greca era composta, come quella egiziana, due piatti sospesi a due braccia eguali.
I Romani adottarono lo stesso tipo, come possiamo constatare soprattutto sul sepolcro del fornaio Eurisace, di cui un bassorilievo è dedicato alla pesatura del pane. Essi inventarono tuttavia la celebre bilancia Romana a peso mobile. E non dimentichiamo che l aparola bilancia (bis, lanx: doppio piatto) è una parola latina.
Sepolcro di Euricace, Rilievo della pesatura del pane, I secolo.
San Michele, pesatura dell’anima, Pannello del XIII secolo.
La conclusione sarà che gli Antichi non hanno sempre effettuato pesature esatte benché abbiano conosciuto buone bilance. Perché frodavano appassionatamente! Frodavano anche per entrare nell’Altro Mondo! Sui bassorilievi egiziani, si vede spesso la Morte dare un colpo di pollice sul piatto che regge il suo cuore mentre gli dei, distratti, discutono tra di loro. Questa pratica passa per essere frequente, perché, nel Libro dei Morti, un trapassato onesto afferma che lui non ha affatto sollevato il piatto.
Segno dello zodiaco: la Bilancia (21 settembre- 20 ottobre). Pubblicità farmaceutica per l’Argirofedrina.
In India, un certo banchiere pesatore d’oro, utilizzava, secondo Al Gaubäri, una bilancia sensibile all’attrazione un’asta calamitata. In Giudea, se si deve credere all’Antico Testamento, molti mercanti portavano un sacco di falsi pesi. In Grecia, i venditori di porpora si servivano di bilance a braccia ineguali di cui uno era di legno più pesante di quello del braccio opposto oppure conteneva del piombo, in modo da simulare l’esattezza quando i piatti erano vuoti, questo strumento ha avuto gli onori di un trattato aristotelico. A Roma infine, l’imperatore Adriano dovette emanare un editto contro i falsari in cui dichiarava l’esilio in un’isola deserta ed un giorno è stata dissepolta una bilancia recante l’iscrizione Exacta in Capitolio: giudicata esatta in Campidoglio, il che prova che i Romani possedevano un’amministrazione dei Pesi e misure.
E malgrado gli errori… umani della bilancia, gli Antichi l’hanno sempre considerata come il simbolo della giustizia. Dopo averla vista funzionare alla porta degli Inferi, hanno creduto di vederla sulla volta stellata: la Bilancia divenne il 7° segno dello zodiaco. È perché, essi dicevano, ha dovuto rifugiarsi in cielo in compagnia di Temi, la giustizia non esistendo più sulla terra.
Secondo Emile Mâle, la bilancia è entrata nell’arte cristiana grazie agli scultori meridionali che l’avevano trovata utilizzata nella pesatura dei cuori nei manoscritti orientali e sui bassorilievi dell’Egitto. Perché nessun testo evangelico fa menzione ad un giudizio divino praticato in tal modo. Per deferenza, gli artisti cristiani non piazzarono la bilancia dell’anima tra le mani di Dio padre o quelle del Cristo; sarebbe stato dar loro il ruolo di Anubi, considerato nel Medioevo come un demone così come tutti gli dei pagani. È a San Michele, il più terribile nemico di questi falsi dei, che toccò questo ruolo; è lui che vediamo con la bilancia in pugno su numerosissimi timpani di cattedrali o su innumerevoli capitelli raffiguranti il Giudizio finale; è lui che è diventato l’Arcangelo della Giustizia. Ispirandosi anch’egli ai predecessori antichi, Satana bara a volte nell’ombra, cercando di far pendere verso sé il piatto…
L’idea doveva essere buona poiché, allo stesso tempo dei cristiani, i musulmani la adottarono: testimonia quel “racconta Mongolo” intitolato Le Bilance, che apparve nel 1823 in Tablettes romantiques, con la firma di “A” (senza dubbio Abel Hugo) e che parafrasava la storia leggendaria del sultano Ekher. Ekher vede in sogno una bilancia di cui un piatto è carico di un gran numero di oggetti molto pesanti è in equilibrio con un altro piatto tenuto da un bambino alato.
“nel primo”, spiegherà al sultano un fachiro, “ sono posti i tuoi innumerevoli crimini, nell’altro, la sola buona azione che tu abbia compiuto: aver avvicinato ad un porco affamato il suo cibo. Ma un solo crimine in più e il bambino alato che rappresenta questa buon azione, non potrà più assicurare l’equilibrio!”
Furioso il sultano vuole fare uccidere il fachiro, che tranquillamente ripete: “Un solo crimine in più, e…”. Il sultano si ravvede, fa penitenza e diventa un perfetto monarca.
Gli Arabi hanno dedicato un posto a parte alla metrologia tra le altre scienze e le hanno dedicato importanti trattati, come, nel XII secolo, quello di Al-Châzini, intitolato La bilancia della saggezza. Uno dei loro matematici, Omar al Chajjâmi, costruisce una bilancia romana migliorata, detta “bilancia dritta” di cui riproduciamo sotto gli schizzi originali
La bilancia dritta araba, dal manoscritto di Omar al Chajjâmi
In Occidente, il filosofo Nicola Cusano e più tardi “l’universale” Leonardo da Vinci, si dedicarono a loro volta ai problemi scientifici della bilancia, ma bisogna aspettare il XVII secolo per registrare un progresso pratico con Roberval, che fu per la prima volta descritta nel Journal des Savants, nel 1670, si compone di un parallelogramma articolato manovrante al di sotto dei piatti di cui nessun attaccatura viene di conseguenza ad ingombrare la parte superiore.
Vetrata della Cattedrale di Chartres: gli speziali (XII secolo)
Il perfezionamento degli strumenti di pesatura ha contribuito molto al progresso della chimica. Secondo Fourcroy, Lavoisier dovette le sue scoperte alla cura con la quale seppe scegliere le sue bilance. Ma è durante il XIX secolo che la bilancia è diventata il più perfetto ed il più preciso degli strumenti di fisica. Bisognerebbe , per descriverne i diversi tipi, entrare in lunghi dettagli tecnici che esulano da questo quadro: bilancia di Fortin, di Deleuil, di Bockholtz, aerotermica di Mohr, di Curie, bascule, ecc.
Frammento di prospetto della fabbrica di bilance “Au Q couronné” (metà del XIX secolo).
Bilancia di precisione, fine del XIX secolo
Sia quel che sia, i pesi e le bilance erano, con i vasi ed i mortai, gli attributi più caratteristici della nostra professione. È notevole che la bilancia sia da una parte comparsa sulle insegne di molte corporazioni di apotecari e dall’altra parte che sia stata scolpita sul frontone di quasi tutti i tribunali! La giustizia e la farmacia hanno un emblema comune!
Blasone degli apotecari di Evreux (XVII secolo)
Bilancia dell’inizio del XIX secolo in ottone, l’altra, tedesca del XVIII secolo
Bilancia in legno argentato policromo
Da: E.-H. Guitard, Les Annales Coopératives Pharmaceutiques, 1934.
Mimi Véron crede di aver trovato infine il vero modo di polverizzare il suo nemico.
In uno scenario da retrobottega dove sono accattastate le materie prime, il dottor Véron trita, con tutta la sua energia, con l'aiuto di un pestello doppio in un mortaio, il folletto di Le Charivari, che gli fa gli sberleffi. Véron non ha la sua siringa da clistere né la sua scatola di Pasta di Regnauld: è un farmacista con un grembiule che si appresta a schiacciare Le Charivari che malgrado la sua posizione di inferiorità continua le sue impertinenze. Véron sempre importunato dagli attacchi di Le Charivari lo perseguita davanti al tribunale correzionale.
Il Nuovo San Sebastiano. Vergine e martire.
Litografia pubblicata in Le Charivari del 25 dicembre 1849.
Crivellato di frecce da Le Charivari, ai suoi piedi una siringa da clistere ed una scatola di Pasta di Regnauld, il dottor Véron, come san Sebastiano martire romano che muore bersagliato dalle frecce, subisce una nuova caricatura di Daumier tre giorni dopo il processo che egli oppose a Le Charivari. Il verdetto del 22 dicembre 1849 ha condannato il giornale a 200 franchi di ammenda e 500 franchi per danni ed interesso a favore del querelante. A partire da questo momento Véron diventa il bersaglio del giornale sia nelle litografie sia negli articoli.
Nel più semplice degli scenari, , in mutandoni, indossante un berretto da notte, il volto ed il collo coperti dalla sua cravatta, Véron è torturato dal peggiore dei suoi nemici, il piccolo folletto di Le Charivari, che pianta nel suo grande petto dell efrecce, penne dei futuri articoli che da ora in poi lo perseguiteranno.
La pubblicazione in prima pagina di Le Charivari il 12 dicembre 1849, di un violento articolo sul dottor Veron intitolato "Al signor Fontanarose" dal nome del ciarlatano in"Il Filtro" di Eugène Scribe, incita il dottore a perseguitare il giornale facendo ricorso alla giustizia. Il giorno del processo Daumier disegna questa litografia, e rappresenta Véron montato su un cavallo ingualdrappato che si protegge dietro uno scudo a forma di coperchio di scatola di pasta di Regnauld. È armato ed a mo' di spada porta una siringa da clistere: per ricordare il suo mestiere di giornalista una grande piuma d'oca.
Sfida a duello il piccolo Charivari rappresentato da un folletto dispettoso che per tutta risposta gli fa degli sberleffi: ai piedi del folletto si distingue un enorme guanto di pelle.
"Non è ad un vano torneo che il cavalier Véron sfida Il Charivari ma ad un vero combattimento mortale! ad un risarcimento di diecimila franchi da parte del giornale! L'incontro deve avvenire nel campo perfettamente chiuso della sesta camera del Palazzo di Giustizia... Reclama anche che si debba accordare cinquecento manifesti menzionanti il detto giudizio i quali saranno affissi su tutti i muri della capitale dal detto cavaliere in persona soprattutto agli ingressi delle farmacie.
Ci tiene a godere della loro considerazione".